sabato 27 marzo 2010

Ricordo del mio breve soggiorno a Nettuno (e la testa se ne va da se...)

Mi è sembrato di tornare nel passato.
Per un momento ho rivisto la strada satura di rassicuranti Cinquecento e di sfreccianti Giulietta.
Per un lungo, interminabile istante ho veduto Pasolini camminare per le incorruttibili dune della costa tirrenica.
Per un momento ho udito la radio tuonare con una vecchia canzone estiva cantata da qualche remoto e ora decrepito cantautore.
Per un momento (cioè una vita) sono tornato ad un tempo che non mi è appartenuto ma che sento mio e ineluttabilmente scomparso.

La tecnologia mi fa orrore ma sono costretto ad utilizzarla, non posso farne a meno.
Questa è la crudeltà della nostra società: ci mette contro la nostra stessa natura e ci costringe a fare quello che decide lei e che noi non vogliamo.

Molti parlano di speranza.
"Vedrai, arriveranno tempi migliori. Tutti saranno realmente liberi di fare, pensare ed essere ciò che desiderano".
La speranza. La speranza è come una gabbia angusta e invalicabile ma ornata e profumata.
La speranza è la nostra catena. La speranza ci rende immobili. Schiavi di un'immobilità squallida e, secondo il nostro stupido credo, positiva, produttiva.
"Spera e tutto andrà bene", mi dicono.
La speranza va vissuta con partecipazione. La speranza va coltivata. La pianta non cresce senza la continua assistenza e il puntuale nutrimento.

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