sabato 14 novembre 2009

La storia dell'uomo che invece di combattere e vincere, tentò di cambiare e perse.

Vastaso, un modesto impiegato, aveva deciso di trascorrere la serata in maniera del tutto inusuale. Egli desiderava ardentemente uscire dal suo modesto e angusto status sociale per sentirsi, almeno per una sera, socialmente elevato. Da piccolo-borghese a borghese: avvertiva la necessità di un simile salto, anche solo per una sera.
Il teatro era il luogo ideale. Il teatro: la dimora dell'alta borghesia.

L'impiegatuccio decise di lasciare la povera moglie a casa e data la sua mansione di casalinga, si sarebbe trovata più che bene tra le mura domestiche. Due biglietti sarebbero costati troppo e loro soldi non ne avevano a sufficienza.
Vastaso estrasse abilmente il suo vestito elegante dal fatiscente armadio che occupava un angusto angolino della stanza da letto e dopo averlo opportunamente indossato ed essersi cosparso di acqua profumata, varcò il portonaccio ligneo della sua triste abitazione per raggiungere il grande teatro della città.
La moglie, il cui fisico era stato irrimediabilmente corrotto dalle fatiche domestiche, lo fissava con malinconica invidia. Avrebbe preferito seguirlo, ma non poteva. Inoltre, ad una casalinga è biologicamente vietato entrare in un teatro.


Avvocati, medici, industriali, commercianti: il teatro era occupato da gente "perbene", gente che ci sa fare, che può tranquillamente permettersi una serata al teatro, pagando magari il biglietto all'intera platea.
Vastaso acquistò immediatamente il suo biglietto. Lo tenne stretto tra le mani come fosse un lingotto d'oro che avrebbe cambiato positivamente e sempiternamente la sua esistenza.
Entrò timidamente nell'immenso teatro. Dopo un momento iniziale di timido smarrimento, il suo sguardo da impiegato venne catturato dall'iperbolica grandiosità dello spazio scenico. Un gigantesco palcoscenico, la cui scenografia era oscurata quasi interamente da un folto sipario rosso fiamma. Infatti era visibile soltanto il proscenio che si presentava mille volte più grande del piccolo palco sul quale, da giovane, Vastaso partecipava alle recite parrocchiali. In quel dato momento, la sua mente ed il suo cuore vennero conquistati dal ricordo di suo padre, un uomo fisicamente e psicologicamente cagionevole che mori' suicida all'età di quarantacinque anni. Lo sguardo di Vastaso si distolse dal palcoscenico.
Il pensiero del suo caro padre defunto accendeva un potente fuoco nel suo cuore. Un'emozione fortissima dominava il suo fisico e fu proprio in quel momento che Vastaso si vergognò del soggetto dei suoi pensieri. "Sono in un teatro, tra la gente perbene. Come posso pensare a quel debole di mio padre? Questa sera sono forte. E' ridicolo stare in un teatro e pensare al proprio padre defunto". E subito smise di pensare al padre e tornò ad ammirare l'incredibile palcoscenico.
Si impegnò alcremente per trovare il suo posto a sedere.
Leggendo sul prezioso biglietto, vide il numero della sua poltrona. La numero 56.
Lentamente si muoveva tra le comode e sfarzose poltrone rosse mentre i suoi occhi restavano fissi sul palcoscenico.
La sala si riempi' immediatamente di genti stupendamente vestite e ornate di preziosi gioielli luccicanti.
Lo spettacolo stava per cominciare.
Vastaso aveva occupato il suo posto. Un'anziana donna era seduta alla sua destra mentre la poltrona alla sua sinistra era occupata da un giovane sui trent'anni. Vastaso ne aveva cinquanta e si riteneva profondamente vecchio. Lamentava continuamente dolori fisici dovuti, secondo il suo inespertissimo parere, allo sfiorire della giovinezza e al mordace mostro della vecchiaia che progressivamente lo attirava tra le sue fauci bavose.
Lo spettacolo, come sempre accade, tardava a cominciare.
Vastaso, senza ritegno, gettò i suoi occhi sulla grandiosa pelliccia indossata dalla donna seduta al suo fianco.
Un favoloso pellicione marroncino, prodotto con pelo di visone, probabilmente. Gli occhi dell'impiegato erano illuminati da un interesse spasmodico nei confronti di quell'indumento che rasentava il sacro. Senza accorgersene, disse ad alta voce: "Mi piacerebbe regalarla a mia moglie...ma con quali soldi?". La donna si voltò rapidamente e notò lo sguardo spudorato di Vastaso, gettato sulla sua calda pelliccia. Un'espressione di profondo sdegno accompagnò la rugosa faccia femminile. Vastasto era come incantato da quel magico pelo. La donna, presa dalla collera, si alzò rapidamente e cambiò posto.
Vastaso continuò a seguirla con lo sguardo. Sembrava avesse visto una creatura paradisiaca, un angelo sceso sulla terra che lentamente tornava nella sua dimora originaria: il paradiso celeste.
La poltrona di destra era vuota. La donna se ne era andata chissà dove.
Vastaso non aveva nulla da guardare. Cosi', quasi istintivamente, si voltò dalla parte opposta e prese a scrutare il giovane posto alla sua sinistra. Questi indossava un elegante completo nero, ornato da una fulgida cravatta rossa e squisitamente accompagnato da un paio di scarpe nere, parecchio costose e lucenti. La loro estrema lucentezza avrebbe accecato qualsiasi occhio umano ma non quello interessato di Vastaso. Gli occhi di un impiegato resisterebbero a tutto pur di ammirare un paio di scarpe esclusive e, ahimè, irraggiungibili.
Vastaso fu come fulminato da quelle calzature angeliche. Le desiderava ma sapeva bene che il suo desiderio era destinato ad infrangersi. Nonostante la chimera, egli continuava imperterrito ad osservare quelle scarpe. E sognava di averle.
Il giovane, accortosi degli sguardi inopportuni ai quali erano soggetti le sue calzature, si rivolse apertamente al suo vicino: "Per quale assurdo motivo sta fissando cosi cocciutamente le mie scarpe?", disse stizzosamente.
Vastaso non rispose. Era troppo impegnato a guardare.
Il giovane, ancor più in collera di prima, ripetè la domanda: "Dico a lei. Perchè continua a fissare le mie scarpe?!". Il silenzio più totale. Vastaso non aveva intenzione di rispondere al giovane. La sua mente e i suoi occhi erano troppo impegnati ad osservare quel miracoloso prodotto della laboriosità umana.
Improvvisamente il giovane, carico di rabbia, si tolse le scarpe e le gettò lontano, quasi fin sotto il palcoscenico. Adesso indossava i soli calzini. Il trentenne si sentiva profondamente soddisfatto. Gonfiò il petto e lanciò un timido sorriso di viva autoammirazione.
Per Vastaso non era accaduto nulla. Le scarpe non c'erano più e allora cominciò ad osservare attentamente la cravatta rossa. I suoi occhi brillavano di gioia. Godeva spasmodicamente nel vedere quella cravatta. Disse con voce timida e malinconica: "Magari potessi averne una uguale...". Il giovane riusci' a udire la voce dell'impiegato e velocemente rispose: "E perchè non corre a comprarsela, cosi' la smette di guardarmi come un deficiente!".
Vastaso udi' il "deficente" e subitò staccò lo sguardo dalla cravatta, per gettare gli occhi su quelli del suo vicino. La felicità che poco prima era dipinta sul suo viso, scomparve immediatamente, lasciando spazio ad un'espressione carica di disperazione. Vastaso si era offeso. Profondamente.
Il giovane iniziò a temere qualche violenta risposta. Aveva pur sempre dato del "deficiente" ad uno sconosciuto.
Il viso di Vastaso cominciò a tingersi di rabbia. La rabbia dell'impiegato sarebbe stata implacabile, se solo si fosse sfogata. La paura del giovane cresceva esponenzialmente. Vastaso era furioso. A momenti avrebbe colpito colui che lo aveva insultato, con un violento pugno sul viso. Avrebbe cosi' risposto prontamente all'insulto proferito nei suoi confronti.
La rabbia cresceva. La faccia di Vastaso divenne famelicamente feroce. Il giovane temeva per la sua incolumità.
Vastaso fece schioccare le sue dita. Si stava preparando al pugno. Il giovane, data la paura, probabilmente non avrebbe reagito al pugno del suo vicino di poltrona.
Vastaso si corciò la manica destra della giacca. Il giovane era immobilizzato dalla paura. Il suo giovane viso si era tinto di bianco. Il trentenne sembrava invecchiato tutto di un tratto, come se la vecchiaia avesse anticipato vertiginosamente i tempi della sua venuta.
Vastaso alzò minacciosamente il braccio destro e chiuse ermeticamente la mano. Le massicce dita impiegatizie formavano un micidiale pugno che avrebbe flagellato il naso del povero giovane, anche se fosse stato il naso di una scultura marmorea.
Il bracciò prese una lunga rincorsa. L'obiettivo stava per essere colpito da quel terribile pugno.
Il braccio si distendeva minacciosamente. Nessuno avrebbe salvato il naso del povero giovane. Nessuno.

Il giovane chiuse gli occhi. Il pugno sarebbe arrivato a destinazione ed il suo naso avrebbe subito un duro colpo. Un colpo fatale, brutale, micidiale.
Il giovane era rassegnato. Si avverti' un potentissimo colpo: un rumore di ossa infrante. Ecco,è successo.

Il giovane non avvertiva nessun tipo di dolore. Un urlo di estremo dolore si diffuse tra la platea.
Il giovane apri' rapidamente gli occhi. L'apparente vecchiaia abbandonò il suo viso e la serenità giovanile tornò a dipingere il suo volto. Con stupore, il giovane vide Vastaso a terra, con le mani piene di sangue e il naso rotto.
Vastaso piangeva per il dolore. Il giovane non capiva cos'era successo. Vastaso cessò di urlare e rapidamente si voltò verso il giovane e disse con voce tremante e riverente: "Mi dispiace, non intendevo offenderla con il mio sguardo" e indicando il suo naso frantumato, continuò: "questa è la giusta punizione per la mia imprudenza. La prego di perdonarmi. Mio signore..."
Il giovane era il figlio di un noto banchiere ed avrebbe presto ereditato la banca paterna.
Vastaso venne assunto dal giovane come "schiavo personale".

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